Buddhismo è la parola che indica gli insegnamenti di Siddhārtha Gautama, vissuto verosimilmente fra il 500 e il 400 a.C., colui che per primo ha testimoniato la realizzazione della sua natura di Buddha.
È una dottrina spirituale e nonostante in essa abbia ampio spazio il senso del Sacro e del Divino, comprese pratiche di devozione ad esso, non ha i tratti che la definirebbero una religione in senso stretto in Occidente. Non vi è un unico Dio creatore e ognuno porta in sé il Divino e la potenziale realizzazione del proprio Buddha interiore nella Illuminazione. Dagli insegnamenti del Buddha nei secoli successivi, come è accaduto per altri grandi pensatori, si sono sviluppate diverse varianti filosofiche e anche religiose che hanno messo le loro vesti al pensiero originario. Nel Dharma buddhista (termine sanscrito per indicare le dottrine a fondamento di questa filosofia e di cui un significato è “sostegno, appoggio interiore”) elemento cardine sono le Quattro Nobili Verità:
-
Duhkha Satya, ovvero la verità dell'esistenza della sofferenza. Questa è anche per noi una verità innegabile: da quando nasciamo a quando moriamo la nostra vita è un continuo susseguirsi di difficoltà fisiche legate al funzionamento del nostro corpo che attraverso il dolore ci avverte dei suoi malfunzionamenti e che a causa del tempo inevitabilmente si ammala, invecchia e si degrada fino a portarci alla morte; di difficoltà psicologiche e psicosomatiche, legate alla complessità del nostro tempo e delle nostre situazioni di vita contingenti, alla percezione dell'impermanenza delle cose, comprese le nostre relazioni, le situazioni che temiamo finiscano o ciò che abbiamo paura di perdere, la preoccupazione per la nostra vita e per quella dei nostri cari, la paura della morte e di tutto quello che percepiamo come minaccia, reale o immaginaria. Persino quando siamo appagati perché otteniamo ciò che desideriamo il momento dopo soffriamo perché siamo momentaneamente separati da esso o abbiamo paura di perderlo.
- Samudaya Satya, la verità dell'origine del dolore: essa si può riassumere nel concetto di attaccamento, ovvero la nostra continua paura di perdere ciò che crediamo di possedere, che sia un oggetto o un pensiero, uno stato fisico o un benessere mentale, un risultato o una convinzione ecc., tutti fattori che appartengono come la nostra stessa vita all'impermanenza delle cose su cui non abbiamo nessun potere poiché tutto finisce ovvero si trasforma. In questo modo forse perché inconsciamente consapevole la nostra mente è costantemente immersa nella preoccupazione, nell'aspettativa, nell'insoddisfazione, nel desiderio e si dissocia sempre più dal presente, unico momento in cui di fatto avviene la nostra vita, facendoselo sfuggire ed alimentando così ulteriormente la sofferenza.
- Nirodha Satya: la verità della cessazione della sofferenza: lasciare andare.
Come esseri umani possiamo essere in grado di vedere il dolore, capirne le origini e averne consapevolezza. Possiamo imparare a ridimensionarlo e collocarlo in un quadro più grande dove la nostra prospettiva cambia assieme alla percezione di esso. Possiamo lasciarlo andare vivendolo in modo diverso, guardando e percependo anche la sua intensità nel momento in cui avviene ad esempio quando ci rendiamo conto di avere un pensiero ossessivo che ricorre continuamente senza portare a nulla, o quando continuiamo a percepire come problema oberante una situazione che non possiamo fare altro che cercare di capire per trovare la soluzione migliore e agirla, o quando la preoccupazione per la malattia e la morte, magari nel momento in cui si attuano, ci dissocia dalla bellezza dell'intensità della vita che nonostante tutto è un evento straordinario, unico e irripetibile e ci dissocia anche dal fascino della morte, un evento che resta un mistero per l'umanità ma che si svela prima o poi a ognuno. Lasciare andare non vuol dire distacco impersonale né inutilità dell'agire e progettare, ma provare a vivere le cose per ciò che sono: intense, mutevoli e impermanenti, bellissime e terrifiche, immergendoci nella nostra vita in ogni momento, per Viverla.
-
Margā Satya, la verità che porta alla cessazione del dolore, ovvero l'Ottuplice Sentiero: ciò che il Buddha ha sperimentato e di cui porta testimonianza mettendo a disposizione gli strumenti che lo hanno aiutato in questa via perché possano essere d'aiuto a ognuno di noi nel risvegliare il nostro Buddha interiore. I concetti chiave in esso sono: retta parola, retta azione, retta sussistenza, retto sforzo, retta presenza mentale, retta concentrazione, retta visione, retta intenzione.
Nella nostra relazione con il cavallo vestiamo la realtà con interpretazioni più o meno distanti dalla verità oggettiva. Ciò è normale e umano, è quello che nella filosofia buddhista viene chiamato Māyā: il velo che nasconde la realtà e che è frutto dei condizionamenti della nostra mente (derivati dalla nostra storia personale, dal contesto storico, sociale, geopolitico in cui nasciamo e cresciamo, dall'educazione, dalle nostre esperienze ecc.) e delle capacità percettive e fisiche del nostro incarnato inevitabilmente limitate. Māyā è il modo in cui noi riordiniamo la realtà attraverso i nostri schemi interpretativi e le diamo più o meno un senso, rischiando il più delle volte di sospendere il nostro giudizio critico e di cristallizzare la nostra visione in convinzioni e dogmi che rendono le scelte più facili ma che poco si adattano alla mutevolezza delle cose e alla loro sostanziale inconoscibilità (come avviene con i bias cognitivi delle scienze cognitive e della psicologia sociale).
La cosa che tendiamo a omettere più spesso nella nostra relazione con il cavallo è che prima di tutto essa inizia da una nostra imposizione: nel nostro mondo antropomorfo gli animali sono coinvolti loro malgrado ad avere a che fare con noi, anche se in natura non è detto che non ci sarebbero relazioni spontanee interspecie come essa stessa ci dimostra continuamente. La nostra specie ha invaso in modo capillare i territori e gli habitat degli altri animali, per lo più cambiandone le condizioni e rompendo i delicati equilibri in divenire che avevano funzionato per centinaia di migliaia di anni e per lo più usando per quello che viene ritenuto il nostro benessere tutto ciò che ha incontrato, animato e non, senza pensare a implicazioni e conseguenze.
Nella relazione con il cavallo possiamo cercare di restituire, per quanto possibile ovvero coi compromessi più etici ed etologici possibili appunto e spogliandoci delle nostre convinzioni e aspettative “umane troppo umane”, una dimensione di vita più equa, solidale e compassionevole cercando di ricreare in ogni rapporto quella possibilità di amicizia che ci sarebbe stata in natura in un caso su mille senza illuderci.

|